domenica 11 settembre 2016

La democrazia del leader

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1. Chi voglia comprendere le profonde trasformazioni che sono in corso nel sistema politico italiano da due o tre decenni può trovare una preziosa risorsa nel recente instant book di Mauro Calise, La democrazia del leader, pubblicato da Laterza.[1] Il volumetto è molto utile e interessante poiché riesce con successo a coniugare una miriade di fatti legati alla nostra cronaca politica quotidiana con una serie precisa di concetti descrittivi e interpretativi della scienza politica. Dare un senso preciso a quello che accade è il primo passo per capire, valutare e prendere posizione, per non subire i processi in corso e contribuire, invece, a determinarli con cognizione di causa.
L’Autore ha scelto di chiamare democrazia del leader il modello politico che si starebbe affermando nel nostro Paese, ma denominazioni analoghe avrebbero potuto essere democrazia presidenziale o presidenzialismo, oppure anche, sulle orme di Max Weber, democrazia plebiscitaria. Si sarebbe potuto anche parlare, un po’ più in generale, di personalizzazione della politica. Sono tutti concetti che, più o meno, si sovrappongono e che circoscrivono qualche aspetto dei processi di cambiamento che sono in corso, cui ci si riferisce nel saggio. Il volume è suddiviso in due parti. Una prima parte, intitolata La costituzione silenziosa, analizza i passaggi attraverso i quali si sta affermando, soprattutto nel caso italiano, il modello della democrazia del leader. Una seconda parte, intitolata Il leader solitario, prende in esame – con ricchezza di analisi specifiche ed esempi – le contingenze della sua applicazione.
 
2. L’elemento d’analisi più rilevante, indispensabile per comprendere quanto sta avvenendo, è costituito dalla profonda metamorfosi del partito politico che è avvenuta nel nostro Paese negli ultimi decenni, a partire, in modo particolare, dall’inizio degli anni ‘90 (periodo che, peraltro, ha segnato la fine della cosiddetta Prima repubblica. In effetti, è diffusa la percezione che in quel periodo qualcosa sia profondamente cambiato, anche se non è semplice dire che cosa. Calise usa la tipologia delle forme di potere di Weber per chiarire la precisa natura della trasformazione.
2.1. Weber aveva distinto tra due tipi fondamentali di potere, il potere burocratico razionale, da un lato, e il potere personale dall’altro. Mentre il potere di tipo burocratico razionale è fondamentalmente moderno, il potere personale è considerato da Weber come un tipo di potere legato soprattutto alle società arcaiche e tradizionali. È il potere che costantemente confonde la persona che lo detiene con l’istituzione che la persona rappresenta. Secondariamente, Weber ha distinto, nell’ambito del potere personale, tra potere patrimoniale e potere carismatico. Il primo è quello basato sulla ricchezza personale, mentre il secondo è basato sull’influenza personale e cioè sulle caratteristiche del leader.
2.2. Il potere carismatico è stato principalmente il potere dei grandi leader religiosi del passato, il potere che distingue l’ordinario dallo straordinario, il sacro dal profano. Esso si basa sull’identificazione emotiva tra il leader e i suoi seguaci, in tutte quelle situazioni di effervescenza sociale, di stato nascente, dove il leader è in grado di inventare nuove prospettive e di introdurre profonde trasformazioni di tipo sociale e culturale.[2]
L’aspetto interessante è che Weber, nella sua analisi della politica moderna, non ha considerato del tutto superato il carisma, anzi, egli ha cercato costantemente una sintesi tra il potere burocratico razionale e il potere carismatico del leader, proponendo in pratica un particolare modello di democrazia plebiscitaria, che fosse in grado di conferire democraticamente dei solidi poteri a un leader munito di una profonda vocazione e selezionato per il suo compito. Questo modello avrebbe dovuto superare l’impasse del modello allora vigente della democrazia acefala (così la chiamava Weber), caratterizzato dalla massificazione, dalla frammentazione politica, dalla conflittualità permanente e dalla pochezza del personale politico (siamo nella Germania di Weimar).
2.3. Or bene, spiega Calise, fino a qualche decennio fa i partiti politici erano strutturati secondo il modello burocratico razionale dei partiti di massa e così svolgevano il loro compito di corpi intermedi, di mediazione tra la massa e le istituzioni politiche democratiche. Questo modello aveva consentito, nel nostro Paese, la costruzione di quella Repubblica dei partiti magistralmente descritta da Scoppola.[3] Ora, in un breve volgere di tempo, i partiti hanno mutato profondamente la loro struttura per trasformarsi secondo un modello di tipo personale, con caratteristiche principalmente carismatiche e patrimoniali,[4] caratteristiche che, chiaramente, non è facile far convivere con il moderno stato di diritto. Comprendere le trasformazioni del partito politico avvenute recentemente nel nostro Paese significa quindi comprendere i motivi che hanno condotto sempre più al ricorso ad un modello carismatico – patrimoniale, modello destinato a sfociare nella democrazia del leader.
2.4. La personalizzazione della politica induce molteplici effetti sul sistema politico nel suo complesso, soprattutto nei confronti dei sistemi di partito tradizionali che, in molti casi, avevano raggiunto una precisa strutturazione. Calise mostra con chiarezza come la personalizzazione finisca per vanificare a) la funzione di rappresentanza sociale dei partiti (cioè di rappresentanza dei diversi gruppi sociali secondo le tradizionali linee di frattura religiose, di classe o territoriali); b) la funzione di rappresentanza ideologica (cioè di rispecchiamento delle diverse contrapposizioni ideologiche diffuse nella società e nella cultura); c) la funzione costituente mantenuta e svolta dai partiti, in altre parole la funzione di garanzia circa il mantenimento dei fondamenti del sistema democratico.
Osserva Calise in proposito: «Senza dirlo - e forse neanche sapendolo - i partiti senza più destra e sinistra, senza più classi e religioni stanno adeguando la mentalità e ciò che resta dell’identità all’unico catalizzatore elettorale che gli rimanga, il proprio leader. E, visto che il principale obiettivo - in un regime democratico - resta vincere le elezioni, l’unico punto fermo, il pilastro che sopravvive al centro del sistema è portare il proprio capo al governo. Che se ne rendano o meno conto, i partiti italiani sono ormai partiti presidenziali».[5] Questa trasformazione dei partiti italiani costituirebbe, peraltro, solo una manifestazione – tarda e forse poco consapevole - di una tendenza generale, in atto in tutte le principali democrazie del mondo.
 
3. La tendenza verso la personalizzazione va però ben oltre il modello del partito politico e tende a interferire nella tradizionale contrapposizione tra sistemi parlamentari e sistemi presidenziali. Si ha, in altri termini, una tendenza alla presidenzializzazione delle democrazie contemporanee. Una tendenza quindi, esplicita o implicita, a trasformare i regimi parlamentari in regimi presidenziali. Osserva in proposito Calise: «Superando la barriera normativa che separa i due regimi, vengono messi a fuoco i processi che tendono sempre più ad assimilarli. L’impalcatura delle due forme di governo rimane, inevitabilmente, diversa. Ma, nella ricostruzione della evoluzione recente delle principali democrazie atlantiche, si nota un progressivo avvicinamento, con la affermazione, anche nei sistemi parlamentari, di caratteristiche tipiche di un sistema presidenziale. Con un fattore trainante: il ruolo della personalizzazione nei nuovi equilibri costituzionali».[6]
La tendenza alla personalizzazione incide principalmente su tre fronti: a) il rafforzamento dei poteri del primo ministro all’interno della compagine governativa; b) il primato del leader / premier nei confronti del proprio partito; c) legittimazione diretta attraverso il costante dialogo tra leader e opinione pubblica, principalmente attraverso i media. Si noti, al punto b), che in precedenza il leader era espressione del partito ed era da esso controllato; ora si ha invece che il partito è espressione del leader e ne condivide le fortune, tanto che il leader può essere il proprietario del partito e che, alla caduta del leader, il partito può dissolversi.  Si tratta indubbiamente di processi di cambiamento che si stanno affermando anche nel nostro Paese, al di là delle divisioni tra gli schieramenti politici, al di là della costituzione formale.
 
4.  Normalmente, nella definizione dei diversi sistemi politici ci si concentra sui rapporti tra il legislativo e l’esecutivo. La personalizzazione della politica porta tuttavia con sé l’emersione di altri due poteri, dei quali uno è tradizionale e l’altro decisamente nuovo. Si tratta di quello che Calise chiama il fattore M e cioè il potere congiunto dei media e della magistratura. Mentre il governo e il parlamento sono costantemente subordinati ai circuiti della legittimazione elettorale, «[…] sul piano dell’equilibrio tra i poteri, i media, come la magistratura si caratterizzano per essere indipendenti da controlli che non siano quelli che essi stessi esercitano su se stessi, o i loro concorrenti».[7] Infatti, «Se si guarda in retrospettiva, sul piano della costituzione materiale, il vero spartiacque segnato dall’avvento della Seconda Repubblica riguarda il riequilibrio dei poteri tra media e magistratura da una parte, e governo e parlamento dall’altra».[8] Il che è esattamente quel che è avvenuto all’inizio degli anni Novanta.
In Italia è con l’avvento della Seconda repubblica che si costituisce una sorta di simbiosi tra media e magistratura. Curiosamente, tutto ciò ha costituito senz’altro un terreno di personalizzazione, nel senso che gli scandali politici, determinati dall’intervento dei magistrati e raccontati quotidianamente dai media, non potevano che avere una dimensione personale. Progressivamente, sulla scena pubblica, sono stati messi da parte gli schieramenti ideologici e sono stati messi prepotentemente in primo piano gli elementi personali del potere, vuoi di tipo patrimoniale vuoi di tipo carismatico.
Questa trasformazione – osserva Calise - non è stata compresa, soprattutto da parte della sinistra: «[…] l’intreccio tra media e magistratura viene visto dalla sinistra superstite come l’unico argine residuo allo strapotere del Cavaliere. Scambiando un mutamento sistemico per uno spartiacque morale».[9] Solo dopo la caduta di Berlusconi si percepì chiaramente che quella che si era creduta un’anomalia era invece ormai una costante sistemica. Infatti: «Prima Monti, poi Grillo, infine Renzi sanciranno l’inadeguatezza dei vecchi partiti a controllare le leve – decisionali e di legittimazione – del nuovo regime. E ribadiranno il ruolo preponderante di media e magistratura nel dettarne le scadenze e l’agenda».[10]
 
5. Media e magistratura, secondo Calise, non vanno tuttavia demonizzati e vanno ormai considerati come elementi del tutto normali nell’ambito del gioco dei pesi e contrappesi. Contrariamente all’opinione comune, «La caratteristica principale – e più inquietante – del fattore M è la sua congenita impoliticità. Vale a dire, la sua naturale estraneità alle forme tradizionali di partigianeria».[11] Sempre contrariamene all’opinione comune, che tende a concepire la magistratura e i media come poteri forti, va rilevato che solo una parte minima della corruzione è fatta oggetto d’inchiesta da parte della magistratura e finisce sui media. Si tratta, anche in questo caso, di poteri che hanno comunque dei loro limiti intrinseci.
Proprio questi limiti tendono a creare un rapporto particolare, un rapporto perverso, tra il fattore M e il leader. Stampa e magistratura sono indotti a mettere sotto torchio proprio le figure più in vista, appunto i leader. Si tratta di: «Una lezione che in America, antesignana della democrazia del leader, hanno imparato da molti anni. E che si sta facendo strada anche da noi. Dove ogni aspirante alla poltrona di sindaco o governatore – e di presidente del Consiglio – sa di dover mettere in conto, prima o poi, un avviso di garanzia. Per difendersi contro il quale ha due strumenti. Un agguerrito collegio di difesa. E un ampio supporto popolare. Consapevole che, sotto l’attacco del fattore M, anche il leader di maggior successo può trasformarsi rapidamente in un leader solitario».[12]
 
6. Calise non lo dice esplicitamente ma, nella nuova situazione, cambia anche la natura delle masse o, se si preferisce, del pubblico. Secondo il modello della Repubblica dei partiti le masse erano nazionalizzate e politicizzate secondo lo schema dell’adesione ideologica, dell’inquadramento entro le organizzazioni di massa e della militanza. Ora le masse diventano folla solitaria, secondo la fortunata definizione di Riesman, diventano pubblico generico che interagisce direttamente, attraverso i media e i sondaggi, con i leader. Un pubblico estremamente volatile, disponibile a repentini spostamenti di attenzione; sempre alla ricerca spasmodica di nuovi leader ma anche disponibile ad abbandonarli in men che non si dica.  L’offerta politica non è più un’offerta ideologica e programmatica, di appartenenza e di militanza, ma è l’offerta, alle scadenze elettorali, di micro programmi istantanei, strettamente legati alla figura del leader, dove spesso questa tende a oscurare i programmi stessi.[13]
Questa interazione tra il leader e il pubblico generico è mediata dal fattore M il quale, di fatto, diventa così una specie di controllo esterno della liaison dangereuse tra i primi due. Il potere personale è così costantemente narrato, discusso, messo in scena, celebrato e anche messo sotto accusa. In questo quadro, le istituzioni che sono impersonate dai diversi leader personali, ormai prive di una solida legittimazione extra personale, ne seguono il destino, sono costantemente indebolite e sporcate dalle disavventure dei leader personali e vengono quindi facilmente travolte dall’antipolitica. Così cavalcare l’antipolitica diventa il modo più rapido per favorire l’affermazione popolare di un aspirante leader, salvo poi il fatto che egli, a sua volta, possa esser travolto dall’antipolitica che egli stesso ha generato. Le istituzioni dunque diventano più che altro dei campi di battaglia, sono usate come mezzi e non sono più considerate come fini.
 
7. Nella seconda parte del volume, intitolata Il leader solitario, l’Autore presenta l’analisi di una serie di contingenze empiriche che, in fin dei conti, servono a vedere il leader all’opera e, soprattutto, a mostrarlo in tutti i suoi limiti e in tutti i suoi vincoli. Quasi a suggerire che la strada della personalizzazione della democrazia moderna, pur essendo irta di difficoltà, è comunque inevitabile. Ma anche a mostrare che – proprio per tutti i suoi limiti – il problema fondamentale non pare proprio essere quello dello strapotere del leader, bensì quello della sua debolezza.
 
8. Non è difficile tracciare una storia della progressiva personalizzazione della politica in Italia attraverso alcune figure di spicco che hanno tenuto la scena e svolto in un certo senso il ruolo di innovatori, magari inconsapevoli. La successione individuata da Calise comprende, nell’ordine, Craxi, Segni, Berlusconi, Veltroni, Grillo e, infine, Renzi. È estremamente interessante il fatto che il primo innovatore, Craxi, sia sorto sul terreno della sinistra e che sia stato proprio lui il primo a proporre in Italia un progetto di riforma costituzionale. Un tratto comune che emerge da questa storia della personalizzazione e che è rilevato da Calise è, infatti, proprio «[…] la sinergia tra forte personalizzazione e riforma - o ribaltamento - del sistema esistente».[14] Il che equivale a spiegare la situazione di crisi e di stallo del Paese non con le colpe della politica ma con i vincoli dell’architettura costituzionale.
Mentre i partiti tradizionali si presentavano come i difensori dei fondamenti dell’ordinamento costituzionale, i nuovi leader (data la natura carismatica del loro orientamento) tendono a presentarsi come “rivoluzionari”, depositari di un programma costituente che è considerato, nella loro narrazione, come indispensabile per la soluzione dei problemi del Paese. Insomma, la costituzione non è più la regola invariante del gioco, è diventata parte del gioco stesso. Cambiare la costituzione non è più considerato come un attentato ai sacri fondamenti, fa ormai parte del gioco politico quotidiano.
L’area del sistema politico italiano dove il processo di personalizzazione ha incontrato maggiori ostacoli, ed è stato perciò più complesso e travagliato, è ovviamente quella della sinistra. Spiega Calise che «La lenta e tenace ascesa di Walter Veltroni, così come il suo rapido declino, alla guida del maggiore partito del centro sinistra riassume le contraddizioni insanabili nel rapporto tra la leadership carismatica e organizzazione tradizionale di partito».[15] Solo «Con l’arrivo di Renzi, i due principi della personalizzazione - quello organizzativo e quello comunicativo - trovano una sintesi inedita».[16] Renzi dunque non costituirebbe un inceppamento, una caduta momentanea, una svolta autoritaria, come spesso racconta la minoranza del suo partito, ma il faticoso approdo, ancora incerto, di una tendenza generale.
 
9. Com’è s’è detto, la personalizzazione della politica è strettamente collegata all’indebolimento dei partiti in quanto corpi intermedi e all’istituzione di un legame diretto tra il leader e il pubblico. Questa situazione ha implicato il ritorno del populismo, ma in una veste particolare, in una nuova forma. Il nuovo populismo non va confuso con il fascismo e non è neppure un relitto del passato, un fantasma del tempo andato, pare anzi avere ottime prospettive: «[…] la fioritura recente e crescente di movimenti populisti è dovuta principalmente alla capacità [del populismo] di adattarsi al nuovo ambiente comunicativo globale, fondato sulla liquidità, flessibilità, volatilità di orientamenti ed appartenenze. E sulla conseguente trasformazione dei vertici decisionali all’insegna della personalizzazione. […] Con questo mix  - post moderno e post democratico - di territoriale e sociale, personale e virtuale, il populismo si affaccia alla sfida più impegnativa: il passaggio dall’opposizione al governo. Candidandosi a diventare la forma egemone della politica contemporanea».[17]
Il nuovo populismo è sempre meno legato ai connotati comunitari tradizionali di tipo ideologico, etnico e culturale. Insomma, si tratterebbe di un populismo senza il popolo tradizionalmente inteso. È un populismo del pubblico. Esso si rivolge sempre più alla massa della folla solitaria, individualistica e disintegrata, che trova una connessione per lo più soltanto attraverso i network sociali e comunicativi, sfruttando «[…] le ondate emotive di elettorati sempre più volatili, disposti a seguire nuovi idoli ma anche, rapidamente, ad abbandonarli».[18] Il leader personale si trova dunque di fronte all’esigenza di tradurre i vaghi e fluidi moti del pubblico in interventi di governo che abbiano una qualche stabilità e coerenza. Il leader si trova dunque di fronte all’esigenza pressante rilanciare i sentimenti momentanei del suo pubblico, di dare al suo pubblico il contentino quotidiano, senza curarsi troppo di progetti di lunga durata, di ampia prospettiva (quelli invece che, secondo Weber, avrebbero dovuto essere perseguiti in coerenza con la vocazione del politico di professione).
 
10. La mediazione tra il centro e la periferia ha sempre costituito un problema nella storia del nostro Paese, soprattutto a causa di un’assenza cronica di un potere organizzatore e centralizzatore. Questo è il terreno – secondo Calise - sul quale l’avvento del leader rischia di incontrare maggiori difficoltà. Questa funzione di mediazione, nella Prima repubblica, era stata svolta anche e soprattutto dai partiti. Con la fine della Prima repubblica la dicotomia centro - periferia si riproduce e si allarga nelle due novità degli anni ‘90 e cioè il partito del centro di Berlusconi e il partito della periferia di Bossi. Entrambe queste esperienze carismatiche di “innovazione” sono tuttavia sfociate, col senno di poi, nella devastazione istituzionale del Paese. Osserva Calise che: «In periferia, il dogma imperante diventava la devolution, lo smembramento di gran parte delle prerogative dello Stato centrale a vantaggio di una espansione incontrollata delle funzioni - e finanze - regionali. L’unico legame tra questi due eventi […] consisteva nell’alleanza strumentale tra Forza Italia e Lega Nord».[19] I risultati furono quanto mai deludenti: «Mentre il centro si dimostrava sempre più impotente a fronteggiare le sfide di una crisi - economica, sociale, morale - di portata storica, la periferia del paese veniva lasciata a se stessa. Priva di quel collante partitico che le aveva consentito di essere, nei decenni della ricostruzione, il polmone della rinascita. E in balia di modelli fortemente conflittuali di formazione e selezione della propria classe politica».[20]
 
11. Le leggi elettorali, nazionali e locali, che sono state sperimentate per risolvere la questione del rapporto centro - periferia, ebbero soprattutto lo scopo di concentrare il potere sulla leadership; ciò fu realizzato in modo particolare con la legge elettorale locale, che dava ai sindaci un potere di rilievo. A livello nazionale si aboliranno le preferenze.
Osserva Calise che «L’assente principale di questo palinsesto è il partito. Che ha pochissima autonomia nei confronti di un ceto elettivo che occupa, in ampia misura, i suoi organismi dirigenti. E gioca spesso un ruolo marginale nella stessa elezione del leader cui spetta l’onere di vincere e, successivamente, l’onore di governare. Nelle cronache della politica locale, la visibilità dei partiti si riduce inevitabilmente al lumicino. Scompaiono dal dibattito sulle grandi opzioni di policy, monopolizzato da sindaci e governatori. E stentano ad alimentare dal basso la partecipazione a una vita di partito che si comprime sempre più intorno alle scadenze elettorali, e finisce col ruotare intorno alle reti fiduciarie dei singoli candidati».[21] E ancora: «In una prospettiva storica, ciò che si staglia è l’irrilevanza - che si potrebbe, ormai, definire strutturale - dei partiti nel coordinare e controllare i rapporti di potere tra il centro e la periferia».[22]
Così conclude Calise: «Con il premier destinato ad essere, al tempo stesso, più forte e più isolato, e con sindaci governatori impegnati a difendersi dalle insidie dei micro notabili, il panorama nazionale si presenta sempre più privo di un collante. Sia politico che istituzionale. Nell’epoca della democrazia del leader, tenere insieme centro e periferia rischia di diventare una mission impossible».[23]
 
12. La fine dei partiti – che nella storia del Paese avevano spesso svolto un ruolo di supplenza sul territorio – ha messo a nudo la fragilità delle istituzioni in generale e, soprattutto, la fragilità della struttura amministrativa. Ciò era stato avvertito anzitempo e, nei primi anni della seconda Repubblica, erano stati realizzati almeno tre tentativi di riforma. Calise elenca a) la svolta semi presidenziale della bicamerale di D’Alema; b) le tre riforme Bassanini della pubblica amministrazione e c) la primavera dei sindaci. Di queste, «L’unico impianto che mise radici e crebbe impetuosamente fu il nuovo sistema di elezione e gestione del potere municipale».[24] Fu questa l’effettiva sperimentazione di una nuova prospettiva centrata sul leader e che incontrò un certo favore popolare (anche perché il modello dei partiti era ormai da tempo sotto i colpi della anti politica).
Secondo Calise, la primavera dei sindaci fu caratterizzata da tre elementi: 1) l’esautoramento o la sottomissione al leader del ceto politico intermedio locale; 2) il conferimento al sindaco del potere di nomina nella pletora di enti a vario titolo collegati al comune e 3) il conferimento del potere di gestione diretta della macchina municipale. Ma ciò non bastò evidentemente: «Poiché, tuttavia, questi fattori potessero fare la differenza era indispensabile che i sindaci avessero le qualità per sfruttare e mettere a regime un ventaglio così ampio di opportunità».[25] Il leader dotato di vocazione sembra una merce rara.
 
13. In effetti, osserva Calise, «La primavera dei sindaci conteneva, in embrione, molti dei caratteri fondativi della democrazia del leader. Un rapporto diretto tra il candidato e gli elettori, non mediato dalle macchine di partito e dai circuiti micronotabilari. L’assunzione piena e personale della responsabilità di governo, anche grazie al controllo verticale sull’apparato amministrativo. Il costante riferimento al sistema dei media, dal cui favore e dai cui attacchi dipendeva la popolarità del sindaco presso l’opinione pubblica. E la supervisione silenziosa – o improvvisamente fragorosa – della magistratura, investita di una supplenza politica in un sistema, almeno all’inizio, povero di contrappesi allo strapotere del primo cittadino».[26]
Questo modello, considerato da molti come un vivace e promettente laboratorio politico, incontrò però quasi subito l’ostracismo delle vecchie élites politiche: «[…] i sindaci furono rapidamente estromessi dai vessilli dell’Ulivo nascente, sostituiti – nell’immaginario collettivo e nel reclutamento effettivo – da una coalizione partitica».[27] Mentre i suoi avversari cincischiavano a livello locale, Berlusconi riuscì a prevalere sul piano nazionale grazie «[…] al fatto di avere imboccato, con coraggio e spavalderia, una strada – almeno nell’immagine – di discontinuità con il passato».[28]
 
14. Invece di affrontare esplicitamente i problemi connessi all’implementazione di un’efficace democrazia del leader, il dibattito politico sarà per lungo tempo monopolizzato dalla devolution, cioè dalla riforma federalista, in funzione di opposizione alla Lega. «[…] le regioni si presentano investite di una pressoché totale autonomia. Con un presidente legittimato dall’elezione diretta, con una potestà legislativa illimitata che comprende la riscrittura dei propri statuti e financo della propria legge elettorale […] salvo due fondamentali equivoci».[29] Il primo riguarda la dotazione finanziaria (che continua a essere stabilita centralmente) e il secondo riguarda il duopolio decisionale tra il presidente e il consiglio. Spiega Calise che: «Al posto, quindi, di un governatore decisionista e con un proprio, autonomo seguito elettorale, le regioni si ritrovarono imballate tra due logiche di direzione – e gestione – concorrenti. Un presidente che si sforzava di emergere nelle funzioni – e nell’immagine – di leader, e una pletora di consiglieri e assessori che riproducevano – e moltiplicavano – le pratiche spartitorie della Prima repubblica. Con l’aggravante di non rispondere più a vincoli di partito, ma soltanto - volenti o nolenti – all’esigenza di consolidare il proprio network individuale di contatti – e preferenze».[30]
Con il senno di poi, continua Calise: «Come dimostra un’analisi sistematica e comparata della prima fase del governo monocratico nelle regioni italiane dietro la facciata decisionista di molti presidenti è continuata, in realtà, a perpetuarsi la incapacità di smantellare una impalcatura legislativa ereditata dall’impianto originario di istituzione delle regioni. Caratterizzata dalla cogestione e lottizzazione dei gruppi consiliari, con alleanze trasversali e secondo procedure collaudate da decenni di consociativismo. Soprattutto nelle regioni del Sud, il controllo presidenziale sul consiglio si rivela un processo molto lento, contrastato e dagli esiti incerti».[31]
Tuttavia, osserva Calise, nonostante la loro relativa debolezza, sindaci e governatori possono usufruire, contro il fattore M e contro i nemici interni al proprio stesso partito, della norma che lega il loro mandato a quello dei rispettivi consigli. Tradotto sul piano del governo nazionale: «Nella nuova geografia dei poteri della democrazia del leader, il fattore M può trovare un limite solo se l’inquisizione del premier apre una crisi di governo che coinvolge l’intero corpo parlamentare. Col rischio che lo scacco al re si trasformi in finale di partita».[32]
Insomma, pare che anche nel caso dei sindaci e dei governatori – dove il modello del leader sembra sia stato avanzato con maggiore decisione – le realizzazioni abbiano dato risultati inferiori alle aspettative. La vischiosità delle vecchie pratiche, degli interessi particolari sembra in grado di vanificare le migliori intenzioni dei migliori leader. Le implementazioni all’italiana di qualsiasi modello innovativo sembrano costantemente tradire le aspettative, sembrano destinate a impantanarsi nelle resistenze più varie.
 
15. Una valutazione ripetutamente suggerita da Calise è che la democrazia del leader sia comunque un processo ormai maturo, destinato ad affermarsi nelle principali democrazie del mondo e dunque anche in Italia. Come al solito, nel nostro Paese le cose vanno rilento e, quando le innovazioni sono applicate, sono applicate male. Se è possibile, a segnare i maggiori ritardi è, come al solito, la sinistra.
Osserva, infatti, l’Autore: «Ci sono voluti vent’anni, e una clamorosa non -  vittoria, perché la sinistra varcasse il Rubicone della leadership. Il ritardo, nei confronti del mondo - occidentale e non - è epocale. […] Questo trapasso la sinistra non solo lo ha combattuto il rifiutato, ma – peggio - non lo ha compreso. Per cui al ritardo organizzativo e istituzionale si somma a quello culturale.  […] per vincere la mission – quasi - impossible di mettere il centro sinistra al passo con il nostro tempo, Renzi deve affrontare quattro sfide, in parallelo ma che conviene distinguere per – crescente - difficoltà: la comunicazione, il partito, l’istituzione, l’amministrazione».[33]
Renzi è sicuramente riuscito a innovare per quel che concerne il piano della comunicazione. Invece: «La partita per la leadership del partito è stata, prevedibilmente, più difficile. Non si trattava di cambiare un segretario, ma di far saltare un fortilizio. L’ultimo - tra i partiti europei - in cui al comando non c’era un uomo - più o meno solo - ma una oligarchia».[34] E prosegue: «Ciò che nessuno poteva prevedere era il suicidio con cui Bersani, nell’arco di pochi mesi, mandò a picco se stesso e la sua ditta. Tra i tanti eventi imprevisti della ingarbugliatissima storia politica italiana, questo resta il più paradossale. Perché solo un’oligarchia totalmente autoreferenziale poteva riuscire nel miracolo di resuscitare Berlusconi e, al tempo stesso, fare da trampolino per il lancio - alla propria sinistra - di un partito che, in pochi mesi, conquista un quarto dell’elettorato».[35] Il riferimento va ovviamente al M5S.
Le altre due sfide sono ancora in corso. Quella istituzionale ha portato all’attuale problematica questione del referendum sulla riforma costituzionale. A parere di Calise la sfida nel campo dell’amministrazione si rivela invece come la sfida più difficile e forse impossibile da vincere. Il giudizio di Calise nei confronti di Renzi non è comunque troppo negativo: «Se si fermasse - o venisse fermato - dove è finora arrivato, Renzi si meriterebbe comunque un posto d’onore nel Pantheon politico italiano».[36]
 
16. Dall’esperienza di Renzi – interpretata con il filtro analitico di Calise - sembra emergere non tanto la nozione di un tentativo autoritario, come è stato ampiamente sostenuto, quanto la nozione della fragilità del leader. Commenta Calise su questa questione: «Perché il dato saliente della democrazia del leader non è lo strapotere del capo. Ma la sua fragilità. Il fatto di essere esposto alla spirale delle aspettative crescenti, dei sondaggi incombenti e delle decisioni impellenti. Con un circuito di legittimazione costantemente sull’orlo di una crisi di nervi. Mentre le leve istituzionali disponibili restano limitate e inadeguate. Per queste e tante altre buone ragioni - che tutti conoscono ma restano seppellitene dalla cattiva coscienza della sinistra e anche un po’ della destra – la riforma che servirebbe al paese per uscire definitivamente dal guado consisterebbe nella blindatura del potere del primo ministro».[37] Non tanto quindi una limitazione del potere del leader, quanto un suo consolidamento.
Aggiunge comunque poco più oltre: «[…] nella congenita fragilità del suo comando sta anche la principale garanzia che i nuovi regimi personali restino nell’alveo democratico. Fintanto che i cittadini avranno la passione per scavarne il solco».[38] E ancora: «Perché la democrazia del leader non si ritrovi ostaggio dei nemici poco visibili ma molto tangibile che la assediano, occorre abbandonare i simulacri - e il retroterra ideologico - di un passato che non ritornerà. E attrezzarsi per consolidare l’autorità di chi può ancora portare sulle spalle il fardello dell’unità del comando».[39] E qui possiamo tornare a Weber, alla democrazia plebiscitaria e alla vocazione del leader carismatico.
 
17. Il quadro prospettato da Calise, rispetto alla situazione del nostro Paese, è dunque quello di un’irreversibilità della crisi dei corpi intermedi, dei partiti politici in particolare, che avevano in precedenza svolto egregiamente il ruolo di collegamento tra la società civile e i palazzi del potere. Questo significa prendere atto della fine di un certo tipo di partecipazione politica, della fine della militanza nei partiti di massa, la fine dei partiti che si propongono come rappresentanza sociale o come rappresentanza ideologica, la fine dei partiti che si pongano come garanti dei fondamenti della costituzione. Infatti: «L’approdo di questa trasformazione del vecchio quadro istituzionale potrebbe essere la presidenzializzazione dei regimi politici. Ricostituendo intorno al «monarca repubblicano» l’unitarietà del comando legittimata democraticamente. Molti segnali vanno in questa direzione».[40] Non ci sarebbe dunque nulla di più sbagliato di considerare questa tendenza come un colpo di mano autoritario. Infatti, non è necessario che il regime presidenziale implichi una fusione tra il legislativo e l’esecutivo. L’esempio più tipico è quello degli USA, dove in taluni casi l’azione del leader è fortemente indebolita. In secondo luogo, il fattore M espone il leader personale a una continua verifica, mettendone continuamente in luce non soltanto la forza ma anche l’intrinseca debolezza: «Sempre più in futuro, al posto di parlamento e partiti, sarà il fattore M a dettar legge, e il corso della nostra politica. Nuovo – e antico – contraltare corporativo al leader».[41] Insomma, la presidenzializzazione non costituirebbe di per sé una minaccia. Si tratterebbe piuttosto di realizzarla entro un disegno coerente, a partire dalle esperienze che già esistono e offrono buoni risultati.
 
18. A nostro parere, il contributo di Calise – che abbiamo tentato di sintetizzare per sommi capi, il più fedelmente possibile - è estremamente utile per comprendere retrospettivamente i cambiamenti di cui siamo stati testimoni magari inconsapevoli nei decenni precedenti. Ma è anche estremamente utile a comprendere a fondo i termini del dibattito attuale intorno alla proposta di riforma costituzionale che sta lacerando il Paese. Perché la questione della democrazia del leader entra direttamente nella questione della riforma, ne rappresenta anzi il presupposto.
Sul piano puramente teorico, la prospettiva classica dei corpi intermedi, unita a un sistema rigorosamente parlamentare, magari con una legge elettorale proporzionale, sarebbe indubbiamente preferibile e sarebbe senz’altro più consona alla filosofia della democrazia. Tuttavia pare davvero che – a questo punto - l’onere della prova spetti ai suoi sostenitori. Tutti i tentativi di rifondare la partecipazione e la militanza secondo il modello del partito di massa sono falliti miseramente. Il rendimento dei sistemi rigorosamente parlamentari sembra effettivamente piuttosto scadente e inefficace e il dissolvimento dei partiti è parte stessa di questa inefficacia. Gli stessi oppositori di Renzi non sanno fare altro che adottare, in formato minore, il modello della leadership. Anche a sinistra del PD c’è stata una ricerca di leader carismatici, molti dei quali hanno fallito e sono finiti nel dimenticatoio.
Se è vero – come sostiene argomentatamente Calise - che il modello della partecipazione politica e il modello parlamentare della Prima repubblica è diventato oggettivamente improponibile, allora non resterebbe altro che mettersi nella prospettiva della democrazia del leader, tanto più che si tratta di una tendenza generale. Ma bisognerebbe farlo bene. Se ci si mette seriamente nella prospettiva della democrazia del leader, l’attuale progetto di riforma costituzionale sembra costituire piuttosto un pannicello caldo. Nell’attuale proposta, accanto a una certa confusione generale, non c’è alcun serio elemento di tipo presidenzialistico. Non c’è alcun effettivo e chiaro aumento di potere a favore del governo. Non è previsto alcun chiaro bilanciamento dei poteri. Insomma, una riforma che non risolve quel che dice di risolvere e che non farebbe altro che lasciare comunque il passo a una costituzione materiale presidenziale strisciante all’italiana, che del resto ormai opera da tempo (vedi il caso Napolitano) e che viene sempre invocata in extremis per risolvere i pasticci che altrimenti non si saprebbe come risolvere. Potrebbe allora anche essere che, ancora una volta, l’armageddon prossimo venturo, la battaglia finale tra il e il no, faccia parte di un mondo immaginario, di una narrazione fantastica cui troppo spesso la nostra politica ci ha abituati, e finisca, quale che sia il risultato, per non risolvere alcun problema. Il dibattito comunque è aperto.
 
Giuseppe Rinaldi
10/09/2016
 
 
 
OPERE CITATE
 
2016   Calise, Mauro
La democrazia del leader, Laterza, Bari.
 
1981   Cavalli, Luciano
Il capo carismatico. Per una sociologia weberiana della leadership, Il Mulino, Bologna.
 
1991   Scoppola, Pietro
La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia, Il Mulino, Bologna.
 
 
NOTE
 
[1] Cfr. Calise 2016.
[2] Cfr. Cavalli 1981.
[3] Cfr. Scoppola 1991.
[4] Il fenomeno Berlusconi rappresenta in pieno l’unione tra carisma e patrimonialismo.
[5] Calise 2016: 37.
[6] Calise 2016: 38.
[7] Calise 2016: 58.
[8] Calise 2016: 59.
[9] Calise 2016: 63.
[10] Calise 2016: 63.
[11] Calise 2016: 64.
[12] Calise 2016: 68-69.
[13] Questa nuova realtà ci avvicina alla famosa definizione di Popper, il quale ha affermato che la democrazia è il sistema nel quale i cittadini possono mandar via chi ha il potere senza spargimento di sangue.
[14] Calise 2016: 74.
[15] Calise 2016: 78.
[16] Calise 2016: 80-81.
[17] Calise 2016: 83.
[18] Calise 2016: 85.
[19] Calise 2016: 98.
[20] Calise 2016: 100.
[21] Calise 2016: 104.
[22] Calise 2016: 104-105.
[23] Calise 2016: 105.
[24] Calise 2016: 107.
[25] Calise 2016: 109.
[26] Calise 2016: 109-110.
[27] Calise 2016: 110.
[28] Calise 2016: 111.
[29] Calise 2016: 111-112.
[30] Calise 2016: 114.
[31] Calise 2016: 119.
[32] Calise 2016: 121.
[33] Calise 2016: 122.
[34] Calise 2016: 124.
[35] Calise 2016: 125-126.
[36] Calise 2016: 131.
[37] Calise 2016: 133-134.
[38] Calise 2016: 140.
[39] Calise 2016: 134.
[40] Calise 2016: 138.
[41] Calise 2016: 140.